Domanda
Gentilissima Dott.ssa Agnone,
Le scrivo per chiederle qualche consiglio su come comportarmi con mio figlio maggiore di 10 anni e mezzo.
Filippo è un bambino introverso, che ha sempre avuto grosse difficoltà ad inserirsi in qualsiasi ambito che non fosse quello strettamente familiare.
Già da piccolissimo, se al parco giochi notava la presenza di altri bambini, si faceva venire delle vere e proprie crisi, perché lui non voleva entrare. Stessa cosa, ma in modo molto meno marcato, durante gli anni d’asilo e poi a scuola.
Nei primi tre anni di scuola, poi, aveva anche difficoltà comportamentali, sia nei riguardi dei compagni che delle maestre.
Cambiando casa, è stato costretto a cambiare scuola e classe e, sebbene le cose siano leggermente migliorate per quanto riguarda la condotta, nulla è cambiato nell’ambito dei rapporti con i compagni.
Lui non gioca… sta a guardare e non fa nulla per dimostrare un benché minimo desiderio di compagnia, anche se sono certa che all’interno “frigge” dalla voglia d’essere chiamato dai bambini.
A casa è lo stesso: passa da momenti di servilismo esagerato (quando desidera qualcosa) a momenti di aberrante apatia, sdraiato sul letto o sul divano a fare assolutamente niente: o videogames (che ho razionato per forza di cose) o tv.
Lo sport poi è un altro tema scottante. Essendo lui sovrappeso, abbiamo sempre cercato di invogliarlo a praticare qualsiasi sport, basta che si muovesse un pochino.
La pallavolo è stata un flop: al primo rimprovero della squadra ha mollato tutto offesissimo. Ci siamo dati alle arti marziali: ma, dopo tre anni e la rottura di un piede, ha abbandonato anche quelle. Altro non vuol fare.
Con noi genitori è sempre una sfida continua: è sempre un tirare la corda per vedere fino a che punto d’esasperazione può portarci (e ci sta riuscendo alla grande).
Sembra un adolescente intrappolato nel corpo di un bambino.
Lui poi è un bambino buono e sensibile, forse troppo… è un “ingenuo” che purtroppo si lascia prendere in giro e si tiene tutto dentro. Non racconta mai nulla e per tirargli fuori qualcosa ci vogliono settimane.
Sono terrorizzata dall’idea che l’anno prossimo, con l’entrata alle medie, verrà letteralmente “massacrato” da quelli più grandi di lui.
Non so più che fare con lui.
Grazie anticipatamente.
A.
Risposta
Cara A.,
quando devo scrivere di bambini, o rispondere ai quesiti su di loro, sento crescere la responsabilità della mia professione, che mi porta a soppesare doppiamente ogni parola, perché nutro per la delicatezza della crescita un profondo rispetto e un grande senso di protezione.
Metti in conto, dunque, la mia difficoltà nel rispondere ad un quesito senza l’incontro diretto con voi, che mi arricchirebbe di tanti particolari che sfuggono al racconto scritto.
Mi colpisce la tua pre-occupazione per il futuro del tuo Filippo, ragazzino nella difficile età di mezzo tra l’infanzia e l’adolescenza. Che periodo complicato! Le vecchie definizioni sono obsolete, e le nuove devono ancora arrivare: non è così?
Credo che Filippo, da un certo punto di vista, si senta esattamente a metà: non è più bambino, e non è nemmeno adolescente, e, se ci riflettiamo mettendoci nei suoi panni, dev’essere davvero faticoso.
Una parte del suo disagio possiamo ricondurla a questo periodo della sua crescita, che gli richiede una continua trasformazione fisica e mentale, oltre che relazionale.
Con questa premessa spero di offrirti una “cornice rassicurante” nella quale leggere il tema di cui mi parli, che in qualche modo prova a dare un senso a quel che accade.
Ma guardiamo un passo indietro.
Parto dal fatto che la timidezza, sarai d’accordo con me, è un vissuto che tutti in qualche modo sperimentiamo, con sfumature diverse, che vanno dall’imbarazzo alla vergogna. Possiamo quindi in qualche modo immedesimarci nel sentire di questa emozione.
Di certo la timidezza riguarda bambini particolarmente sensibili, che hanno quindi doti particolari: sono intelligenti, ed hanno grandi capacità di osservazione, ma non sempre riescono a esprimersi pienamente e in spontaneità.
Mi racconti che Filippo è così sin da bambino, quindi, se capisco bene, questa modalità relazionale, che è per lui diventato uno stile di entrare in contatto con gli altri, gli è ormai familiare, e la utilizza da molto tempo.
Filippo è, ad esempio, un bambino che “mette dentro” invece che “buttare fuori”, poiché, come mi dici, è in sovrappeso.
La sua è un’età in cui è molto importante arrabbiarsi, sfogarsi, poter dire. Il tema (che riguarda il vostro stile, a livello familiare) è quello della “sana aggressività”: la possibilità per lui di dire “no”, di “arrabbiarsi” sapendo che può farlo senza perdere l’amore dei genitori, rifiuto che gli servirà a individualizzarsi e a crescere diventando una persona naturalmente diversa da voi, e che rientra nel tema del “mettervi alla prova”.
Mi avrai certamente visto scrivere che ogni comportamento si apprende, e acquista un senso, solo dentro una relazione: con questo voglio intendere che Filippo, nel suo percorso, deve avere imparato che per lui è meglio non fare che agire, tacere piuttosto che esprimersi. I motivi possono essere tanti, e non necessariamente “gravi”, ma di sicuro sono importanti per lui.
E’ molto probabile che Filippo non usi questo comportamento intenzionalmente, ma ha imparato che è la soluzione migliore per lui, per proteggerlo da una difficoltà che non riesce a superare.
Questo può essere stato vero in alcuni casi, ma è adesso diventata una modalità generalizzata di relazionarsi agli altri, che in alcuni casi diventa disfunzionale.
Possiamo ipotizzare che i vissuti legati alla timidezza vadano dal “non lo so fare”, “non sono capace”, al “non sono all’altezza”, “non imparerò mai”. Sarebbe interessante che Filippo potesse esprimere personalmente e direttamente quali sono i pensieri che accompagnano i suoi comportamenti.
C’è qualcosa che posso suggerire a voi genitori, che può cominciare a modificare la situazione, ma ritengo che sia utile per Filippo (solo se lo vuole!) trovare uno spazio sicuro in cui potersi esprimere liberamente, ad esempio attraverso delle tecniche espressive (dei laboratori per ragazzi, ad esempio, e con tanta tanta delicatezza e pazienza.
Comincio col dirvi delle cose scontate, ma che possono involontariamente sfuggire all’attenzione di noi adulti:
- è importante che voi non parliate dell’atteggiamento di Filippo come di un “problema”, cercando di evitare, in generale, qualsiasi etichettatura che riguardi il suo comportamento (specialmente in vista della sua imminente adolescenza);
- evitate le situazioni in cui lui si sente palesemente in imbarazzo, che lo portano ad isolarsi ulteriormente;
- fornitegli esempi positivi: raccontate le vostre esperienze di vergogna, dell’infanzia o della vita adulta, e raccontate anche in che modo avete trovato una soluzione per uscire dall’imbarazzo.
Questo non significa assecondarlo nel suo atteggiamento di chiusura, ma cambiare la prospettiva di osservazione, cercando di mettere in evidenza, da parte di voi genitori, affetto, accoglienza, sostegno.
Queste tre parole non le ho scelte a caso: sono tre aspetti importanti che nella crescita di Filippo devono in qualche momento essergli arrivati in modo poco chiaro. Non metto in alcun modo in dubbio il fatto che abbiate fatto tutto il meglio per lui, e questo non è un giudizio nei vostri confronti, ma sono convinta che solo un clima di accettazione e calore possa aiutarlo a uscire da alcune convinzioni errate che ha strutturato nei confronti di se stesso.
E’ importante adesso che Filippo capisca che a voi lui piace così com’è, e non si senta “costretto” ad arrivare a ideali che per lui sono irraggiungibili. Ha bisogno delle vostre lodi, di qualche apprezzamento in più, e che voi possiate dire delle cose che certamente pensate, ma che forse talvolta date per scontate, ma che per lui sono di estrema importanza.
Credo che un modo per affrontare la situazione cominci innanzitutto dal fatto che Filippo, dato che comincia a non essere più tanto piccolo, desideri davvero fare qualcosa, e che riconosca tale aspetto come una difficoltà.
L’unico contesto in cui è possibile trovare un riscontro professionale adeguato, ritengo sia un consulto di terapia familiare, ricorrendo ad un esperto riconosciuto dall‘Albo degli Psicologi ed abilitato a praticare la psicoterapia. Suggerisco di affrontare un primo colloquio di coppia, senza Filippo, in modo da evitargli la percezione di costituire “un problema”, e di permettere alla persona che vi ascolterà di poter affrontare con interezza i temi delle vostre dinamiche familiari, che rappresentano “lo scenario” in cui Filippo è cresciuto insieme a voi. Questo potrebbe già essere sufficiente a trovare delle soluzioni adeguate senza coinvolgerlo direttamente; o, in alternativa, potrebbe garantire a Filippo uno spazio di ascolto che lui potrebbe essere pronto ad accettare.
Poiché il tema non è semplice da riassumere in una risposta, e che mi sono espressa in modo abbastanza articolato, se necessario, sono a vostra disposizione per ulteriori chiarimenti. Spero che nelle mie righe, tuttavia, non manchi di emergere la comprensione nei tuoi confronti, Alessandra, il rispetto verso la cura amorevole che hai per Filippo, il sostegno empatico verso un momento del ciclo di vita certamente impegnativo anche per voi genitori, e l’apprezzamento per la tua capacità di chiedere aiuto, rendendoti disponibile a metterti in discussione.
Il mio augurio è che Filippo, “preso per mano da voi”, possa uscire presto dalla sua timidezza: sentendosi le spalle protette e sostenute da mamma e papà, che gli permettano di “tirar fuori” tutto quello che in questo momento nasconde sotto il silenzio.
Dott.ssa Marcella Agnone – Psicologa
Serena dice
Signora le consiglio vivamente di leggere il libro di Luigi Anepeta “timido docile ardente”, mio figlio ha le stesse caratteristiche del suo.
La timidezza non è è una malattia è solamente presente nel bagaglio genetico di alcune persone, deve essere solo accettata e non discriminata come succede purtroppo in questa società.